Agostino Di Bartolomei, un uomo per bene
“I veri capitani possono morire o anche scegliere di morire, ma dimenticarli è impossibile”.
28 ottobre 1984, stadio di S. Siro, derby Milan-Inter.
L’Inter è in vantaggio 1 a 0, con gol di Spillo Altobelli su azione dirompente di Kalle Rummenigge. Azione rossonera, da Hateley sulla destra a Wilkins, cross di Razor, e sulla sponda di Virdis arriva Di Bartolomei che di forza insacca!
Agostino Di Bartolomei iniziò a tirar calci al pallone sui campetti del suo quartiere, a Tor Marancia. Per un anno scolastico (1971-1972) fu compagno di classe di mio cugino. Lo ricordo, io dodicenne, nel corso di una partita allo stadio Flaminio, finale del Torneo Roma Junior Club riservato alle scuole superiori di Roma: mio cugino in porta, Ago, maglia n° 10, a guidare la squadra.
Crebbe poi nell’OMI, una delle squadre satellite della Roma. Nel 1968, quando aveva 13 anni, venne notato da alcuni osservatori del Milan, rifiutando tuttavia la proposta del club lombardo poiché riluttante all’idea di trasferirsi lontano da casa a una così giovane età. Riuscì quindi ad approdare nel vivaio della Roma, vincendo coi giovani capitolini nei primi anni settanta due titoli nazionali e conquistandosi al contempo le prime sortite in prima squadra, avvenute nella stagione 1972-1973; il suo primo tecnico fu il filosofo Manlio Scopigno, che lo fece esordire in Serie A il 22 aprile del 1973, pochi giorni dopo il suo 18° compleanno, in un pareggio a reti bianche a Milano contro l’Inter.
Nell’annata 1973-1974, alla prima giornata contro il Bologna (2-1) arrivò il primo gol con la maglia giallorossa. Nelle tre stagioni iniziali con la Roma fece la spola tra giovanili e prima squadra, collezionando 23 presenze con un minutaggio via via crescente. L’annata 1975-1976 la trascorse invece in prestito al Lanerossi Vicenza, in Serie B, per farsi le ossa, come si diceva una volta, e maturare definitivamente in una compagine composta prevalentemente da giovani elementi: qui ritrovò Scopigno, che gli fece affrontare per la prima volta in carriera una stagione da titolare.
Con la stagione 1976-1977, Agostino ritorna nella Roma, divenendo un punto fermo nella squadra della sua città e sino al 1983-1984 saltò pochissime gare, tanto da ottenere a fine anni settanta i gradi di capitano. Il torneo 1977-1978 fu per lui il più prolifico in termini realizzativi, avendo messo a segno 10 reti; ne realizzò invece 7 l’anno dello scudetto.
Fu questa, anche, la stagione in cui Liddas Liedholm, noto sperimentatore, decise di arretrarlo e schierarlo quale libero, perciò in difesa, accanto al giovane Pietro Vierchowod: l’esame, dopo un inevitabile settaggio dei meccanismi, venne ampiamente superato e diede ottimi frutti, culminando nello scudetto del 1983 atteso sulla sponda giallorossa della capitale da ben 41 anni.
Soprannominato “Ago” o “Diba”, si espresse al meglio non solo come centrocampista ma anche come difensore, mettendo in mostra carisma, continuità di rendimento e intelligenza tattica: sopperì infatti alla maggiore pecca che gli veniva imputata, la scarsa propensione allo scatto e alla corsa, con una perfetta lettura in anticipo delle fasi di gioco – come a pensare “più veloce” dei suoi avversari.
Capace di lanci impeccabili e passaggi perfetti verso i compagni di squadra, era anche dotato di grande potenza nelle conclusioni a rete, arma con cui trovò svariate volte la via del gol sia da fuori area che su calcio di punizione; la stessa la impiegò come rigorista, spesso con tiri sotto la traversa calciati praticamente da fermo.
Di lui la critica disse «originariamente centrocampista, ebbe una seconda carriera come libero, o centrale difensivo. Un destino che tocca solo a giocatori di costruzione, con un grande senso del gioco collettivo. Come Beckenbauer e Scirea. E infatti è al grande Gaetano che viene automatico accostare Agostino per i silenzi e per la stessa visione di un calcio semplice, pulito».
In totale giocò con la maglia giallorossa oltre 300 gare (di cui oltre la metà 146 con la fascia di capitano), segnando 66 gol. In undici stagioni, oltre al già citato titolo italiano del 1983, vinse anche tre Coppe Italia, raggiungendo inoltre nel 1984 la finale di Coppa dei Campioni – la prima e fin qui unica nella storia del club romano – persa ai rigori all’Olimpico contro gli inglesi del Liverpool. Nella sua avventura giallorossa venne espulso un’unica volta, nel torneo 1978-1979 contro la Juventus (gli venne sventolato il cartellino rosso insieme a Virdis), partita in cui segnò peraltro anche la rete della vittoria.
Nell’estate del 1984, con l’arrivo di Sven-Göran Eriksson sulla panchina giallorossa, venne inserito nella lista dei partenti non essendo ritenuto adatto alle veloci dinamiche di gioco del tecnico svedese. Disputò la sua ultima partita in giallorosso in occasione della finale di Coppa Italia del 1983-1984 vinta contro l’Hellas Verona, coi tifosi che gli dedicarono lo striscione: «Ti hanno tolto la Roma ma non la tua curva».
Si trasferì quindi, al seguito di Liedholm, nelle file del Milan, vestendo quella maglia rossonera, proprio quella che, da bambino, sedici anni prima aveva rifiutato.
Durante il suo primo campionato a Milano, dopo poche giornate si trovò di fronte al Meazza la sua ex squadra, cui siglò una delle reti della vittoria meneghina (2-1): la vibrante e rabbiosa esultanza con cui festeggiò il gol, carica di rivalsa per essere stato messo da parte troppo in fretta dalla “sua” Roma, non gli venne perdonata dalla tifoseria capitolina che pochi mesi dopo, nella sfida di ritorno all’Olimpico, gli riserverà una dura accoglienza; in questa difficile situazione ambientale, dopo un contrasto su Conti, l’ex capitano giallorosso venne quasi aggredito da Graziani in una partita che degenerò in rissa.
Con il Milan giocò per tre stagioni, segnando tra l’altro anche un gol nel derby, quello con cui ho aperto questo scritto, senza tuttavia sollevare trofei e nello stesso anno raggiunse una finale di Coppa Italia persa contro la Sampdoria.
Arrivato Sacchi, il Milan cedette Di Bartolomei al Cesena. All’età di 32 anni, in Romagna il giocatore ebbe modo di disputare un’ultima stagione in serie A, guidando con i gradi di capitano i bianconeri alla salvezza.
Concluse la carriera sui campi di Serie C nel 1990, dopo due annate con la Salernitana, nell’ultima delle quali contribuì al raggiungimento della storica promozione dei campani in serie B, dopo ventitré anni d’assenza, indossando anche in questo caso la fascia di capitano.
Dopo il ritiro, fu opinionista per la Rai durante i Mondiali di calcio nel 1990 e fondò anche una scuola calcio che portava il suo nome e in cui cercò d’infondere ai ragazzi la sua visione del mondo del pallone, pulito, nel rispetto delle regole e dell’etica del gioco.
«a me piacerebbe che i ragazzini imparassero da piccoli ad amare il calcio, ma non prendendo a modello alcuni dei miei capricciosi colleghi».
Dal carattere schivo e riservato, assai lontano dai canoni classici del calciatore, solo e abbandonato dal mondo che aveva tanto amato, morì suicida la mattina del 30 maggio 1994 a San Marco, a Castellabate, sparandosi al petto con la sua pistola Smith & Wesson calibro 38, esattamente dieci anni dopo quella finale di Coppa dei Campioni persa dalla sua Roma (di cui era capitano) contro il Liverpool.
I motivi del suicidio – si parlò di alcuni investimenti andati male come la chiusura a Salerno di un’agenzia assicurativa afflitta dai debiti, nonché di un prestito che gli era stato appena rifiutato per la sua scuola calcio di San Marco – divennero abbastanza chiari quando fu rinvenuto un biglietto in cui il calciatore spiegava il suo gesto, da ricollegarsi probabilmente alle porte chiuse che il mondo del calcio gli serrava: «mi sento chiuso in un buco».
Molti suoi attuali colleghi dovrebbero prenderlo come esempio di vita e di professionalità.
Osservando il calcio “moderno”, profondamente ironico come lui era, certamente adesso esclamerebbe “…mbè…mi aspettavo di peggio”.