Tra San Siro e Sanremo parliamo di stanchitudine e spogliatoio

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Buongiorno. Oggi Uno sciagurato punto di vista, preso atto, con rammarico, della sconfitta rimediata domenica nel derby anche stavolta cerca di contribuire con un’analisi ponderata dei fatti e la loro conseguente valutazione. È stata una sconfitta inattesa non solo nel punteggio ma anche (e qui ci risiamo) nei modi, perché specie nell’approccio alla partita ciò che si è osservato non è andato bene, tant’è che gli altri ne hanno (bravamente, diciamolo) approfittato indirizzando l’incontro su binari tecnico-tattici a loro più congeniali. Apriti cielo. Dobbiamo farcene una ragione, siamo pur sempre nel Bel Paese, dove convivono, più o meno pacificamente, 60 milioni di C.T. Perciò, nulla di cui meravigliarsi leggendo o ascoltando i giornalisti sulla piazza e talvolta anche i “giornalai”, con tutto il rispetto per gli edicolanti.

Tutti improvvisamente sono accorsi al capezzale del grande malato, con il sorriso di chi pensa di saperla lunga nascosto da baffetti da sparviero, per vederlo spirare. Tutti a tranciare giudizi, da bravi analisti e commentatori. In troppi evidentemente non vedevano l’ora. Noi bravi non siamo e non lo vogliamo diventare. Noi non partecipiamo, aristocraticamente, a disfide calcio-linguistiche di bassa qualità. Noi ci limitiamo ad osservare e, usando il cervello di cui disponiamo, dopo aver osservato, ci facciamo una nostra idea autonoma.

I numeri in effetti sono improvvisamente diventati impietosi, improvvisamente, e non saremo certo noi a negarlo. Nessun gol fatto e cinque subiti in due partite di campionato, inframezzate dal rocambolesco pari di Belgrado che ai più è naturalmente apparso come una sconfitta. Vediamo perciò di capire qualcosa di più e meglio. Atteso che se un calciatore è bravo (quanto non importa, da 1 a 10 fate voi, il concetto non cambia) non può “disimparare” a giocare né ora né mai. Tutt’al più può migliorare. O restare così com’è, ma regredire mai. Se date un pallone a Baggio, a 50anni, non avrà disimparato a palleggiare, statene certi. E sono certo che riuscirebbe a palleggiare meglio di Meitè, giusto per fare un nome. Perciò se il rendimento (in fatto di gioco e punti) di una squadra cambia e diminuisce, le motivazioni possono solo essere di altra natura e cioè di carattere fisico-atletico o motivazionale. Se una squadra accusa una serie di infortuni, in giocatori chiave, tutti di lunga durata e tutti contemporaneamente, è chiaro che a lungo andare ne paga le conseguenze, ameno che non disponga di una rosa talmente ampia e di qualità da potervi fare fronte.

Il giocatore non efficiente fisicamente non si può allenare e perciò non è disponibile o lo è in misura minore. Ma non mi pare questo sia il nostro caso, tenuto conto che l’infermeria era piena e gli attuali infortunati numericamente rientrano in un numero percentuale assolutamente in linea con le statistiche disponibili. Nei mesi passati abbiamo giocato (bene) e raccolto punti (e consensi) in situazioni ben peggiori. Ora la rosa è lunga, si può competere su più fronti. Sono stati recuperati giocatori e quelli arrivati possono dare un buon contributo, Tomori su tutti, che quando ha giocato si è fatto valere perciò si può fare bene sia in Europa che in campionato. Detto ciò, direi per quanto mi riguarda di passare oltre. Se non è un fatto fisico potrebbe essere un problema di condizione atletica, altresì detta “stanchezza” che secondo Checco Zalone non sarebbe altro che “stanchitudine”.

Personalmente ritengo la stanchezza un fatto meramente soggettivo. Ognuno di noi la percepisce diversamente in funzione delle proprie caratteristiche organiche e caratteriali. Se un gruppo di persone, di età differente, con differenti gradi di preparazione atletica, con differente costituzione fisica, si mette a svolgere un’attività sportiva per un determinato tempo, tutti al termine dell’attività saranno certamente stanchi, ma non alla stessa maniera, questo in funzione delle diversità sopra elencate. Bene. Immaginate di trasporre questo ragionamento all’interno di un gruppo-squadra di calcio professionistico. Tutti atleti, di età media tra i 20 e 30 anni, atleti a tempo pieno, controllati periodicamente dallo staff sanitario, che seguono un regime alimentare dedicato a ciascuno di loro, che non hanno necessitò di alzarsi alle 05.00 del mattino per recarsi al cancello della fabbrica o del cantiere, che non trascorrono 8, 9 o più ore seduti davanti ad un monitor con la colonna vertebrale storta, che terminato l’allenamento hanno soltanto l’imbarazzo di come riposare. Dovrebbero essere stanchi di cosa, scusate!? E anche fosse, la stanchezza, al momento della prestazione agonistica dovrebbe comparire negli ultimi 20 minuti. Eventualmente.

Domenica in campo c’era chi non giocava da due settimane, di cosa avrebbe dovuto essere stanco? E inoltre, considerato un gruppo-squadra di 26-27 giocatori, detto che non tutti accusano la fatica allo stesso modo per i motivi descritti in precedenza, sarebbe accettabile che degli undici che vanno in campo, uno, massimo due, possano accusare difficoltà. Ma gli altri? Oppure dovremmo pensare che siano stati messi in campo“11” stanchi tutti insieme? Io una squadra di 11 stanchi non l’ho mai vista. E allora, passiamo ad esaminare una possibile natura di tipo motivazionale. Tutte le squadre, dalla terza categoria alla Francia champion du mond si sostengono sullo stesso scheletro di regole che sono quelle della giustizia.

Diritti e doveri devono valere allo stesso modo per tutti. Esempio banale: se l’allenamento è alle 10:00 della mattina, quell’orario vale per tutti. Un imprevisto, può capitare e si accetta. Ma se qualcuno comincia ad arrivare puntualmente alle 11:00, e nessuno interviene, allora qualcosa non va. E se quel qualcuno poi comunque gioca, peggio ancora. Perché il giocatore che arriva puntuale alle 10:00 pensa “perché io arrivo alle 10:00 e a quello viene concesso di arrivare alle 11:00? La storia ci insegna che eventuali eccezioni si “tollerano” soltanto in casi estremi e se non vanno a scapito dei risultati.

Nella mia vita di caso estremo ne ho visto soltanto uno: Maradona. Maradona aveva una vita non propriamente da atleta e tutti ne erano a conoscenza. Ma tutti, compagni, dirigenti, tifosi, erano consapevoli che quella era la sua natura e che in ogni caso, Maradona, con l’immenso talento che si ritrovava, gli avrebbe fatto vincere le partite. A Maradona si perdonava tutto, a torto a ragione, ma era così, perché c’era chi garantiva per lui. L’allenatore rappresenta il garante del gruppo, quello che deve prendere le decisioni eche i giocatori devono accettare. Se un calciatore inizia a vedere che ci sono differenze di trattamento può anche non dire niente per rispetto ma dentro di lui non può essere contento perché il trattamento diverso lo percepisce. Il riconoscimento deve essere solo nella remunerazione monetaria discendente dal contratto.

L’impegno di Ibrahimovic al festival di Sanremo era noto alla società al momento del rinnovo contrattuale e non è stato possibile impedirlo dal punto di vista giuridico per stessa ammissione della società. Tuttavia, ho il timore che non a tutti abbia fatto piacere che in un momento così delicato chi predica rigore, impegno, dedizione alla causa, precisione, poi se ne vada per curare aspetti della propria immagine privata che col calcio nulla hanno a che fare. E che questo malessere si possa essere manifestato sotto altre forme. Nulla quaestio ci sarebbe stata per motivi familiari o per una chiamata della Nazionale. Al di là delle frasi di facciata dette in conferenza stampa vorremmo essere certi che Pioli sia stato, è, e sarà il garante verso il gruppo per la vicenda della partecipazione a Sanremo di Ibrahimovic. E che il calciatore abbia chiarito o chiarisca con lo spogliatoio. Perché se così non fosse non sarebbe finita qui. E sarebbe invece molto grave.

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