La folla, il tifo, gli spalti deserti, il calcio all’epoca della pandemia

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L’argomento della rubrica “Uno sciagurato punto di vista”, è stavolta quello di approfondire meglio questo singolare tipo di calcio che stiamo vivendo (più che altro subendo…) ormai da molti mesi senza pubblico sugli spalti nonché i suoi effetti sul nostro modo di osservare le partite.

Partiamo intanto col dire che per “pubblico” intendiamo una particolare qualificazione del sostantivo “folla”.

Ma cos’è la folla? In psicologia sociale si parla di folla per definire un grande numero di individui che si trova in uno stesso posto. Tutti questi individui sono in quel posto perché accomunati da un interesse comune. La folla è il contesto ideale all’interno del quale l’individuo perde la sua razionalità. Ma cosa ci fa la folla all’interno di un campo di gioco, nel caso uno stadio, a seguire un evento sportivo?

A sentire un premio Nobel, tale Konrad Lorenz, ci si deve rifare alle oche che ritualizzavano la propria aggressività esibendo ostilità verso le altre oche. In origine questo era un modo usato dalle femmine per osservare, quindi selezionare, i partner più adatti e soltanto poi divenne un semplice gioco, fine a sé stesso, per trasferire l’aggressività verso i nemici esterni.

Un procedimento analogo, secondo alcuni studiosi tra cui lo stesso Lorenz, interesserebbe l’uomo: il gioco, o meglio lo sport, quale soluzione più innocua per soddisfare il bisogno umano di entusiasmo collettivo e di battaglie. La folla al seguito della propria squadra impegnata nell’evento sportivo come momento e ragione di appartenenza (il famoso interesse comune di cui sopra). Di più non è dato sapere con precisione. Sappiamo però che esiste il tifo, definibile anche come la malattia infantile dell’appassionato calcistico, detto appunto tifoso. Il tifo non ha genesi, non ha spiegazioni, non ha limitazioni. Il tifo è, esiste, e basta. Nel nome del tifo si giustifica più o meno tutto. Allo stadio si va per tifare.

Da casa, è inutile dirlo, è altra cosa. Tant’è che per ricreare in piccolo l’atmosfera dello stadio ci si riunisce (direi ci si riuniva…) in gruppi più o meno numerosi, prima nei locali (ricordate Tele+ e Stream?) poi direttamente nelle case. Il calcio come momento di happening, di socialità. Il locale, prima, e la casa, dopo, come modo per ricreare la bolgia costituita dalla folla. Seduti allo stadio, e poi a casa, ci si conta, si è orgogliosi di condividere con altri come noi la stessa passione. Ci si compiace. Seduti tutti insieme, per due ore o giù di lì, tutto si annulla e si appiattisce: reddito, titolo di studio, ceto sociale di appartenenza, tipo di professione, fede politica. Il calcio come la livella di Totò. E poi si contano gli altri, quegli altri, il nemico, l’avversario, quelli dell’altra fede, che sono sempre (o almeno ci sembrano) meno di noi.

Il calcio riguarda così tanti aspetti della nostra esistenza, tutti complessi, contraddittori e portatori di conflitto: memoria, storia, luoghi, classi sociali, questioni di genere in ogni loro più delicata sfumatura, l’essere maschi o femmine, l’identità familiare, tribale, nazionale, la natura dei gruppi, sia quelli che compongono le squadre sia i loro tifosi. Riguarda le relazioni spesso violente, ma (talvolta) anche pacifiche ed esemplari tra il nostro gruppo di appartenenza e quelli degli altri.

Se vuoi stare nel calcio non puoi che essere di due tipi. Uno interno, cioè il tifo per la propria squadra, verso cui manifesto la fede. E uno esterno, cioè il tifo per il fenomeno calcio, il movimento, la competizione che la mia squadra deve comunque vincere. Ma se vuoi difenderne uno devi per forza difendere l’altro. È un trabocchetto morale che fa diventare il calcio una sorta di regime nel quale confinarsi in modo volontario. E forse il calcio è perfino fonte di felicità.

In sostanza il calcio è diventato una fede senza poterlo essere. Ma alla fine ci sono i risultati e ci sono anche conseguenze chiare che a quei risultati portano e fanno a volte vacillare la fede, perché sono scientifici, oggettivi. Ma possono paradossalmente anche rafforzarla.

La gente conosce, archivia, usa ogni mezzo per difendere la propria squadra. Il calcio è diventato argomento trasversale. Il pubblico fa parte di un grande partito di promozione complessiva dell’evento, quindi un grande movimento di parte. Ma per la prima volta, in Italia e in una grande democrazia occidentale, un movimento di parte diventa una soluzione collettiva.

Perché allora un pubblico che ormai ha imparato a guardare il calcio, a farne direttamente parte, non riesce a distinguere la fede dal fenomeno? Perché non c’è nessun interesse a farlo. Anzi, c’è al contrario, un discreto bisogno di rimanere nel proprio angolo di paradiso, lontano dei dubbi, consolato dal parere di chi la pensa allo stesso modo.

Lo spettatore allo stadio non è solo l’effetto visivo per chi segue da casa, ma è anche la manifestazione reale del perché quei “ventidue scemi in mutande” rincorrano il pallone, occupando più o meno bene il campo. Insomma, sembra niente ma se togli il pubblico e lasci il gioco, questo sembra monco, e in una catena di smontaggio viene via tutto. Come se al circo togliessi i direttori, i trapezisti, i clown, lasciando solo le “bestie” con i loro versi, sotto la tenda o nelle gabbie.

Però se non ricordo male, prima del virus, si discuteva moltissimo di come adeguare il pubblico alla gradevolezza, di come istruire il tifoso, come lavorare per fargli perdere quella irrealtà che poi sfociava nella ricerca dell’offesa e nel sogno dello scontro. Tentativo rimandato?

La verità è che il calcio è come un cinema naturale che andrebbe sempre visto dal vivo: senza la presenza del pubblico, rimane solo quella di scena, come il set, che si uniforma e diventa soltanto cinema, anzi mezzo cinema, una fiction tivù, con più trama; non ci fossero stati anche i telecronisti, avremmo avuto una nuova condizione del racconto calcistico, con le sole telecamere come testimoni. Pensate se fosse sempre stato così che noia. Speriamo torni, al più presto, la bolgia di una volta.

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