Il fattore campo o home advantage

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La Bombonera, stadio del Boca Juniors

Oggi la rubrica “Uno sciagurato punto di vista”, ritorna su argomenti già accennati in precedenza, nel caso di oggi il cosiddetto vantaggio di giocare in casa. Quante volte abbiamo sentito dire (o detto) “la prossima la giochiamo in casa, siamo favoriti”. Ma è proprio così? Uno studio commissionate (pensate un po’) nel 1977 negli USA, dati alla mano, dimostrò che in quattro sport (baseball, basket, hockey e football americano) le squadre che giocavano in casa effettivamente vincevano in media di più e facevanopiù punti delle squadre ospiti. La motivazione? Secondo gli autori dello studio, stava tutta – per tornare a Durkheim – nel supporto dato dal pubblico (ricordate?): nella spinta della collettività sull’individuo.

Da lì in avanti, ha avuto grande impulso un vero e proprio settore di ricerca, con sociologi (!), psicologi (!), economisti, statistici e scienziati impegnati a comprendere meglio non solo il reale impatto del pubblico, ma a decifrare gli altri meccanismi –ancora oggi in parte irrisolti – che stanno alla base del presunto “vantaggio di giocare in casa”. Sia negli sport collettivi che individuali, sia in manifestazioni nazionali che internazionali: pensate al primo sport che vi passa per la mente, e quasi sicuramente troverete uno o più studi sull’home advantage in quella disciplina.

Una delle prime pubblicazioni dedicate al calcio e all’home advantage è uscita nel1982, sul settimanale di divulgazione scientifica New Scientist, dove si suggeriva chela Spagna, in quanto Paese ospitante, avrebbe potuto vincere con maggiore probabilità i mondiali di quell’anno (sappiamo come andò a finire…). Ecco, entriamo nel dettaglio, parlando del fattore campo nel calcio. Molti studi hanno confermato, sebbene con sfumature pratiche diverse, che nel calcio il numero di tifosi, la loro densità sugli spalti e la loro vicinanza al campo(si pensi, per esempio, all’effetto depotenziante della pista di atletica leggera) hanno un impatto sui punti fatti da una squadra che gioca in casa, e su altri elementi, come ilnumero di occasioni da gol create.

Alcuni ricercatori si sono occupati invece di studiare che ruolo abbiano nell’home advantage la distanza percorsa nei viaggi dalle squadre per andare a giocare una partita o l’altitudine in cui si trova il campo da gioco. Secondo uno studio del 2014,condotto su 157 campionati di calcio in tutto il mondo, l’home advantage cambia molto di Paese in Paese, probabilmente sia per le differenze geografiche che per quelle culturali.

Recentemente sono state analizzate quasi 141 mila partite in 54 stagioni (dal 1963 al 2018) nei maggiori campionati europei (Serie A, Premier League, Liga Spagnola, Bundesliga, Ligue 1, più le massime serie in Turchia, nei Paesi Bassi e in Portogallo). In oltre cinquant’anni, in media il ben oltre il 60% (punte del 66%) dei punti in palio è stato conquistato dalle squadre che giocavano in casa, (per la Serie A, in particolare il dato ammonta al 63,2%).

I dati mostrano anche che il vantaggio casalingo, in alcuni casi, è lentamente calato di decennio in decennio, probabilmente a causa anche della maggiore diffusione delle partite in tv e in radio, che ha fatto sì che gli spettatori controllino e motivino anche a “distanza” le performance dei propri giocatori.

Infine, altri fattori studiati ed analizzati sono quelli legati alla familiarità con il campo, alla difesa della territorialità e alla tendenza di molti allenatori a schierare formazioni più difensive quando giocano fuori casa, in una sorta di “profezia che si autoavvera”, avvantaggiando chi si trova tra le mura amiche.

Ovviamente, separare il segnale dal rumore, ossia isolare i vari fattori causali in gioco, è molto difficile da un punto di vista scientifico, cosa che possono fare gli scienziati che evidentemente hanno a loro disposizione strumenti metodologici che permettono di individuare, con sufficiente precisione, che cosa può determinare o meno il vantaggio di giocare in casa.

Tornando ai nostri tempi, l’emergenza coronavirus e gli stadi vuoti danno un’opportunità per provare a capire, in un contesto senza pubblico, come è cambiato il calcio con gli stadi vuoti, non solo in termini di spettacolo ma anche di home advantage. 

E allora, che cosa dicono i numeri? Il vantaggio di giocare in casa, senza tifosi allo stadio, si è ridotto davvero? Analizzando i dati dei maggiori campionati europei, al termine della stagione 2019-2020, scopriamo che un effetto, in effetti, c’è stato.

Per esempio, in Germania, troviamo che l’impatto dell’home advantage ha subito la riduzione più significativa, osservazione peraltro coerente (ma non necessariamente correlata) con il fatto che la Bundesliga sia anche il campionato europeo con l’affluenza maggiore (43.451 spettatori medi nella stagione 2018/19). 

Nelle prime 25 giornate le squadre di casa avevano conquistato il 50,4% dei punti, ma nelle 90 partite rimanenti le formazioni ospitanti hanno raccolto appena il 39,9% dei punti complessivi. Cioè, il trend sulle percentuali di vittorie si è praticamente invertito: prima della pausa per il COVID19, le squadre di casa avevano vinto ben il 43,1% delle partite; dalla ripresa in avanti, sono state le formazioni ospiti a vincere il 44,4% delle gare.

Sorprendentemente però, scendendo in 2. Bundesliga il risultato è nettamente diverso. Infatti, le squadre ospitanti hanno conquistato il 53,9% dei punti disponibili nelle partite successive alla ripresa, mentre la percentuale pre-lockdown era del 52,0%, con un incremento delle vittorie per i padroni di casa pari al 3,7%.

Come in 2. Bundesliga, nel caso del massimo torneo nazionale, le vittorie tra le mura amiche sono persino aumentate nelle ultime 120 gare, dal 40,8% al 43,3%. Invece, in Serie B si è osservato invece il trend opposto, con una diminuzione del fattore campo del 3,6%, comunque non paragonabile al -10,5% osservato nel massimo campionato tedesco.

Analizzando la Liga Spagnola (27.113 spettatori medi) è emerso essere quello più affine alla Bundesliga: era già il campionato in cui il fattore campo aveva pesato di più fino all’interruzione (le squadre di casa si erano accaparrate il 57% dei punti; dopo la ripresa, però, il rendimento complessivo è calato del 7%). In particolare, con la percentuale di pareggi rimasta praticamente invariata (scesa da 27,8% a 27,3%), sono le vittorie esterne ad essere cresciute sensibilmente, da meno di una vittoria esterna ogni quattro partite (24,4%), a quasi una ogni tre (31,8%). Al contrario, non è cambiato granché in Segunda Division, dove il fattore campo è salito dell’1,5%. 

In Premier League, seconda in Europa per affluenza con una media che nella passata stagione ha toccato quota 38mila paganti, pare non sia cambiato nulla, con le squadre di casa che hanno raccolto il 53,3% dei punti prima dello stop forzato e il 53,7% nelle 90 gare recuperate dopo la ripresa. In Championship si è invece registrato un certo impatto, tanto che dalla ripresa in avanti, le squadre ospiti sono tornate a casa con il 54% dei punti totali, rispetto al 48,2% pre-lockdown.

E in Serie A? A casa nostra, quarto campionato per affluenza media (25.482 spettatori nel 2018/19) gli stadi vuoti non sembrano aver avuto un’influenza particolarmente determinante sui risultati. Le squadre di casa sono persino migliorate rispetto alle gare pre-lockdown, salendo da una percentuale di punti conquistati del 48,3% (la più bassa tra gli otto campionati presi in considerazione in questa analisi) al 50,6%.

Volendo arrivare, per forza di cose, ad una valutazione d’insieme degli otto campionati in esame, si può vedere che il fattore campo ha subito una riduzione percentuale del 2,5%: le squadre di casa hanno conquistato il 52,4% dei punti nelle 2.335 gare giocate prima dell’interruzione e il 49,9% nelle 810 gare giocate senza pubblico dopo la ripresa. I punti in palio sono stati distribuiti equamente, anche se questo non vuol dire che l’esclusione degli spettatori dagli stadi abbia automaticamente determinato l’istituzione di un livello di “gioco casalingo” a similitudine di un videogame nel calcio. 

Appare però corretto evidenziare come elementi quali il calendario (che potrebbe aver determinato confronti relativamente impari), o la mancanza di obiettivi di alcune squadre, che senza un traguardo potrebbero (inconsciamente o meno) aver tirato i remi in barca prima della conclusione del campionato (da noi accade puntualmente) hanno sicuramente avuto un ruolo nei risultati di fine stagione. 

Così come è evidente che il cambiamento dei piani di preparazione atletica, le temperature mediamente più alte o l’introduzione della nuova regola sulle cinque sostituzioni, siano state tutte componenti che impediscano di trarre conclusioni solide scientificamente sull’argomento. O ancora, la diversa interpretazione della regola sui falli di mano che ha generato una disparità importante nell’assegnazione dei rigori tra campionato e campionato.

 E’ però fuori di ogni dubbio come risulta da due studi scientifici dedicati esclusivamente alla Germania (pubblicati la scorsa estate e fondati su modelli statistici molto complessi) che l’home advantage sembri dipendere molto dall’intensità della presenza dei tifosi sia che gli arbitri tendano a cambiare il loro comportamento, punendo di più le squadre in campo. 

Quello che è certo però è che il fattore-campo sia una realtà dello sport e del calcio, nel caso di specie. In base alle analisi svolte esso è effettivamente diminuito, seppur di una percentuale relativamente bassa, nelle gare giocate senza pubblico ma solo nel corso del tempo, disponendo soprattutto di dati riferiti a più stagioni e metodologicamente validati sarà possibile quantificarne con precisione l’impatto, le cause e la variazione di Paese in Paese.

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