Presidenti del Milan: Buticchi, Colombo e Farina

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A tutti coloro i quali si sono avvicinati al Milan durante gli ultimi 30 anni, ricordiamo che la nostra squadra ha avuto anche altri Presidenti, molto noti anche loro. Alcuni hanno lasciato il segno, altri meno, e non soltanto sotto l’aspetto esclusivamente sportivo. Alcuni hanno vinto e sono andati via. Altri non hanno vinto e sono comunque rimasti al loro posto sin quando hanno potuto (o voluto). Abbiamo già parlato nei giorni scorsi di Rizzoli e Riva, ora tocca a Buticchi, Colombo e Farina.

ALBINO BUTICCHI

Nato a Cadimare, sobborgo di La Spezia il 21 maggio 1926, il giovane Albino si distingue subito per vivacità, senso dell’azzardo e un’idea dominante: fare tanti soldi. Il primo affare è una fornitura di calzettoni militari rimediata in modo disinvolto su una nave da guerra. Poi c’e’ l’esperienza controversa nella legione straniera fino a quando il suo intuito lo porta verso il carburante. L’Italia della ricostruzione e del boom ha bisogno di nafta e lui, da buon spezzino, la trasporta via mare. Il mercato e la sua abilità lo fanno crescere: acquista le prime pompe, crescono gli affari e poi, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, diventa responsabile della BP nel Nord Italia: dopo Moratti e’ fra i petrolieri più importanti.

Dal primo matrimonio ha due figli: Nadia e Marco, ex assessore a Lerici ma soprattutto apprezzato scrittore. Durante la movimentata relazione con un’altra donna nascono invece tre figli ma lui ne riconosce soltanto uno. In più, fra i due nasce una bagarre giudiziaria al limite dell’assurdo: lei lo accusa d’averla fatta sterilizzare a sua insaputa durante un altro intervento. Denunce, controdenunce: non ne esce nulla. Molti guai ma anche molta fortuna. Eleganti appartamenti, uno yacht e poi le scorribande negli autodromi: con l’Alfa Romeo avrebbe potuto essere un grande pilota di Formula Uno.

Ma affari e pista non si conciliano per suo disappunto. Lenisce la sua frustrazione nel 1972, coltivando ambiziosamente una sua altra grande passione: il calcio. Dove viene introdotto nell’ambiente da Gianni Rivera che lo porta direttamente in Via Turati, sede del Milan. La denominazione con la quale venne ammesso in società era «ufficiale pagatore» e gli fu concessa la carica di vicepresidente. Veniva guardato di traverso, quel signore venuto dalla provincia che maneggiava i soldi del petrolio e non frequentava i salotti belli di Milano. E lo guardavano talmente storto da non fargli mettere becco negli affari del pallone, fino a che lui non si spazientì e disse, sempre a voce alta, “se ci metto i soldi, voglio essere io a decidere”. E così s’impossessò della poltrona di presidente, ne scalzò Federico Sordillo e iniziò a muoversi in un universo che non conosceva per nulla. Fece fatica, studiò, usò, facendosi violenza, l’arte della diplomazia (che proprio non gli si addiceva) e cercò di regalarsi un sogno: il Milan, per lui, era un ritorno all’infanzia e alla giovinezza quando faceva il terzino nello Spezia.

I primi passi da presidente furono lo specchio della sua vita: gioie immense e delusioni altrettanto grandi. Conquistò la Coppa Italia nel 1973 e anche la Coppa delle Coppe nella sofferta finale contro gli inglesi del Leeds. Era il 16 maggio del ’73 e tutto sembrava potesse essere meraviglioso. Però, dopo la sbornia come dopo le notti vittoriose al tavolo verde, c’è sempre un’alba, e quella del presidente del Milan Albino Buticchi fu domenica 20 maggio 1973. Luogo del risveglio, lo stadio Bentegodi di Verona. I rossoneri sono in testa alla classifica, per lo scudetto basta un punto: ma Verona non è un buon posto per gioire, diventa addirittura “fatale”, il Milan perde 5-3 mentre la Juventus vince a Roma e conquista il titolo.

Buticchi distrutto, come tutti i milanisti. Quel giorno si ruppe un amore. Buticchi, dopo la “fatal Verona, spinto forse anche da qualche consigliere poco accorto, prese in pugno la situazione e fece il decisionista. Solo che faceva fatica a decidere in un ambiente che non conosceva ancora alla perfezione, e così vennero le polemiche e le discussioni. Lui sarà sempre, nell’ immaginario dei tifosi del Milan, il presidente che volle cacciare Gianni Rivera, cioè il mito. Infatti, Buticchi, non si sa mosso da quali idee innovatrici, scelse per la panchina Gustavo Giagnoni e liquidò Nereo Rocco, che era praticamente un monumento in casa rossonera. Poi allontanò Pierino Prati e Roberto Rosato, altri due uomini che avevano fatto la storia della società. Si creò ovviamente una frattura insanabile.

I risultati non erano esaltanti, la gente non si divertiva, gli avversari vincevano e Buticchi non sapeva più che pesci pigliare. In una memorabile intervista dichiarò, che “lo scambio tra Rivera e Claudio Sala si può anche fare”. Come? Cosa? Successe il finimondo. La piazza rossonera si sollevò contro il presidente che osava toccare l’eroe e si schierò, ovviamente, al fianco del capitano dei capitani. Buticchi non poteva più controllare la situazione, non aveva più amici in società e le finanze cominciavano a venir meno. Rivera, arrabbiatissimo per l’onta subita, non si presentò per due giorni consecutivi agli allenamenti, venne punito da Giagnoni e, per risolvere una faccenda che era ormai bollente, s’impegnò in prima persona a eliminare Buticchi e a rilevare la società attraverso l’intervento di Jacopo Castelfranchi e di altri amici. Operazione che andò a buon fine e Buticchi lasciò così il Milan.

Ma la vita, purtroppo, avrebbe dovuto riservargli la parte peggiore. L’orgoglio lo portò a cercare delle rivincite (tentò avventure calcistiche nel Torino e nella Roma), ma nella sua vita cominciarono a sommarsi una serie di sconfitte (negli affari ed in amore) che lo spinsero verso l’isolamento e la depressione. Le ingenti perdite al gioco fecero il resto. Sull’orlo del crack finanziario decise di farla finita: nel 1983 si spara un colpo in testa, ma si salva e rimane cieco. Nonostante i buoni propositi (che lo portarono anche a riconciliarsi con Rivera) non riuscì a separarsi dal gioco, ed una sera del 1992, dopo aver perso 400 milioni di lire, decise, per la seconda volta, di ammazzarsi, gettandosi dalla finestra: cade e si frattura il femore. L’ultimo atto fu la decisione dei figli di interdirlo: degli immobiliaristi senza scrupoli tentarono di acquistare la sua splendida villa di Lerici per una cifra dieci volte inferiore al suo effettivo valore. Era solo l’ultimo episodio di una vita vissuta sempre al limite.

Al Milan restò sempre legato, al punto che le cronache raccontano che negli ultimi anni della sua vita (morì in solitudine, a La Spezia il 13 ottobre 2003), nonostante la cecità, si faceva accompagnare da qualche amico a San Siro per farsi raccontare la partita dal vivo e rivivere, in qualche modo, il clima degli “anni d’oro”.

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FELICE COLOMBO

Nato a Bellusco nell’agosto 1937, fa l’imprenditore e fonda nel 1965 la “Colombo s.n.c.”, impresa che si occupava di stampaggio di materie plastiche, che in seguito si espanse nel settore sanitario e radio-televisivo.

Fu presidente dal 1977 al 1980. Sotto la sua gestione, il Milan vince il decimo scudetto nel 1978/1979, conquistando la tanto agognata “stella”. A lui va ascritto il merito della scelta di Nils Liedholm come allenatore.

Rimase coinvolto nello scandalo del calcio italiano del 1980, giornalisticamente noto come Totonero. La sentenza finale dei giudici sportivi ne decretò la squalifica a vita da cariche sportive e la retrocessione a tavolino del Milan in serie B.

Dopo la radiazione, inizialmente continuò a gestire la società pur non avendo cariche ufficiali (era stato eletto presidente Gaetano Morazzoni, parlamentare democristiano e grande tifoso rossonero, in sostanza un prestanome), poi nel 1982 cedette la società a Giuseppe Farina, ex-presidente del Lanerossi Vicenza.

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GIUSEPPE FARINA

Detto Giussy , nato a Gambellara,  il 25 luglio 1933. E’ stato, principalmente, presidente del Lanerossi Vicenza e poi del Milan nonchè proprietario del Padova. Inoltre durante il periodo da presidente del Vicenza è stato proprietario di diverse squadre-satellite. Di origini contadine, si laureò in giurisprudenza e riuscì ad affermarsi come imprenditore, arrivando alla presidenza del Lanerossi Vicenza nel 1968, pur possedendo solamente il 2% delle azioni societarie. Guidò il Vicenza per 12 anni, ottenendo salvezze miracolose come quella del ’73 con una vittoria in trasferta a Bergamo all’ultima giornata e portando il Lanerossi ai vertici del calcio nazionale con il secondo posto del 1978 dietro la Juventus. Nell’estate del ’75 acquistò il Calcio Padova, di cui rimarrà proprietario fino al giugno ’79 quando cede a Ivo Antonino Pilotto prima il 60% delle azioni biancoscudate e successivamente il restante 40%. Molto abile nell’acquisto dei giocatori, seppe rivitalizzare campioni alla fine della carriera come Sormani o Cinesinho, nonché ottenere giovani validi su cui puntare, un nome su tutti: Paolo Rossi. Il suo declino a Vicenza è legato proprio al giocatore che era il suo pupillo. Infatti, nel braccio di ferro con la Juventus dell’estate 1978 si arrivò alle buste per risolvere la comproprietà e Farina scrisse la cifra a quei tempi stratosferica di 2.612 milioni (!) contro un’offerta piuttosto bassa della Juventus. Si trattava della più grossa valutazione per un calciatore all’epoca e gli oltre due miliardi e mezzo sborsati causarono un grave buco nelle casse di una società di provincia.

Per finanziare l’acquisto Farina tentò la strada degli abbonamenti biennali anziché annuali alle partite del Lanerossi. Paolo Rossi seguirà poi Farina anche nelle sue avventure come presidente del Milan. Negli anni precedenti un’altra busta a risoluzione di una comproprietà fu clamorosa, quella per Paride Tumburus. Farina riuscì a stare sotto l’offerta del Rovereto di appena 20 lire. Fu costretto a lasciare la società al figlio Francesco nel gennaio 1981, con un “buco” di bilancio molto consistente, per poi ritentare l’avventura al Milan nel 1982, acquistando da Colombo la società a pochi mesi dalla retrocessione in serie B. Dopo la facile promozione dell’anno successivo (allenatore Castagner), la prima stagione di serie A non fu fortunatissima (e registrò il fallimento dello “straniero” Blissett) e andò molto meglio nella seconda (altri due inglesi: la rivelazione “Attila” Hateley e “Razor” Wilkins).

Con l’arrivo di Nils Liedholm in panchina (e del compianto Agostino Di Bartolomei) giunse anche la qualificazione alla Coppa UEFA. Il suo periodo rossonero si chiuse senza molta fortuna nel 1986, quando la società fu presa in consegna da Silvio Berlusconi ad un passo dal fallimento. Nel 2006 ha tentato di costituire una cordata per rilevare l’Hellas Verona, iniziativa che però non ebbe seguito dopo che la società scaligera trovò un acquirente nel conte Pietro Arvedi D’Emiley. Nell’autobiografia del suo pupillo Paolo Rossi, “Ho fatto piangere il Brasile”, ammette che il troppo amore per quel giocatore l’ha portato a commettere il più grosso errore della sua carriera, tenerlo a Vicenza. Scherzosamente poi ribadisce che il secondo errore è stato riprenderlo al Milan, quando ormai era alla fine della carriera, pur sentendo il dovere morale di dargli ancora fiducia.

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Qui abbiamo parlato anche di altri due storici presidenti: Rizzoli e Riva

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