Storici presidenti del Milan: Rizzoli e Riva

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Per tutti coloro i quali si sono avvicinati al Milan durante gli ultimi 30 anni, ricordiamo che la nostra squadra ha avuto anche altri Presidenti, molto famosi anche loro. Alcuni hanno lasciato il segno, altri meno, e non soltanto sotto l’aspetto puramente sportivo. Alcuni hanno vinto e sono andati via. Altri non hanno vinto e sono comunque rimasti al loro posto sin quando hanno potuto (o voluto). E per chi critica Berlusconi per il coinvolgimento in alcune vicende, personali e non, ricordo che non è stato l’unico ad essere protagonista in tal senso, anzi… Leggete e vedrete.

ANDREA RIZZOLI

Nasce a Milano il 16/09/1914. Padre di Angelo (detto Angelone per via della stazza), con cui mise in piedi la grande casa editrice omonima, Andrea Rizzoli è legato indissolubilmente alla storia del Milan. Nel 1954, infatti, acquistò il club rossonero da Umberto Trabattoni, il Presidente che aveva costruito il Gre-No-Li insieme all’eccellente dirigente Antonio Busini: la pesante eredità non fu certo un handicap per Rizzoli, il quale aveva in mente di creare una squadra formidabile, sia in campo nazionale che europeo. Non a caso, Rizzoli lasciò il Milan all’indomani del trionfo continentale contro il Benfica. Muore nel 1983.

Andrea Rizzoli si mise in evidenza in quanto grande scopritore delle doti delle persone. Al primo anno, ingaggia Gipo Viani nelle vesti di Direttore Tecnico: a livello dirigenziale si fa affiancare dai fidati e abilissimi Mimmo Carraro e Mino Spadacini. Il Milan comincia a diventare un club poderoso dalla testa, con elementi unici nel proprio ambito. Meticoloso in ogni aspetto, Rizzoli richiamò al Milan Puricelli prima di affidargli la panchina, lo incaricherà di portare in rossonero Juan Alberto Schiaffino, primo vero grande acquisto della sua era. Con l’uruguaiano che subentra a Guttmann, il Milan vince lo scudetto 1954/55 e la Coppa Latina l’anno dopo. Poi, in panchina, tocca allo stesso Viani che bissa il tricolore e sfiora la Coppa dei Campioni contro il grande Real Madrid: Rizzoli si ripromette di non lasciare il Milan finché non avrebbe messo in bacheca quel trofeo.

Si riparte con Bonizzoni in panchina. Il grande acquisto del 1958 è José Altafini, che si aggiunge ai vari Schiaffino, Grillo, Liedholm, Maldini e Buffon: è un Milan davvero fantastico, che segna una valanga di reti e che vince un altro scudetto ma l’anno successivo manca la finale di Coppa dei Campioni. È il 1960 ed è tempo di grandi avvicendamenti: in porta c’è Ghezzi mentre lascia il Milan Schiaffino; al suo posto, i rossoneri ingaggiano il talento 17enne Rivera. In più, arrivano in prima squadra Trapattoni, Trebbi e Salvadore. Ma è ancora un anno di transizione finché non arriva Nereo Rocco: il paròn centra lo scudetto al primo anno con un girone di ritorno travolgente! Col ritiro di Liedholm, la cabina di regia è affidata all’oriundo brasiliano Dino Sani.

La stagione successiva vede l’ingaggio dell’ala Mora dalla Juventus, scambiato con Salvadore, e del centrocampista peruviano Benitez a novembre, al posto della meteora Germano. Se in campionato il Milan abdica subito, in Europa, Maldini e compagni, scatenano tutta la loro classe: una dopo l’altra, vengono eliminate tutte le avversarie a suon di gol. Poi, il 22 maggio 1963, l’apoteosi della vittoria della prima Coppa Campioni a Wembley battendo il Benfica di Eusebio. Nello stesso tempo, viene inaugurato l’avveniristico, per allora, centro sportivo di Milanello. Andrea Rizzoli ha compiuto la sua missione e può adesso lasciare il mondo del calcio.

FELICE RIVA

Detto Felicino, nato a Legnano nell’estate 1935, ragioniere, ex consigliere delegato e presidente del Cotonificio Vallesusa, fu protagonista di uno dei primi scandali finanziari che negli anni ’60 misero a soqquadro la Capitale morale. Nel 1962, succedendo ad Andrea Rizzoli, divenne presidente del Milan, carica che mantenne fino al 1965. Il Rag. Felice Riva, simbolo quasi da operetta dell’ industriale lombardo degli anni del boom, divenne cittadino libanese, costretto all’ esilio per via della guerra civile. Felice Riva era stato rinviato a giudizio perchè, essendo possessore all’ estero, di un pacchetto di azioni del valore di un miliardo di lire non aveva provveduto al rientro dei titoli entro i termini fissati dalla legge. Ma i giudici lo dichiararono non punibile in quanto dal 1974, due anni prima che la normativa sul rientro dei capitali entrasse in vigore, aveva in tasca il passaporto libanese.

L’ex re del cotone era fuggito a Beirut per evitare sei anni di carcere per bancarotta e ricorso abusivo al credito. Riva fu arrestato a Milano la sera del 4 febbraio 1969, ma la Cassazione annullò il mandato di cattura per vizio di forma. Invece di andare in tribunale e rispondere dei suoi reati (il passivo del crack era stato valutato nel ’65 ad oltre 46 miliardi di lire e 8 mila lavoratori restarono a casa), Felicino preferì la strada della fuga. Nizza, Parigi, Atene, infine Beirut. Tanto, non se la filava via a mani vuote: i quattrini esportati non mancavano e – come si è visto – nemmeno le azioni. Capitali legalmente esportati. Ma la legge cambiò: chi aveva titoli, azioni e depositi in contanti all’estero doveva riportarli in Italia. Riva non ci pensò nemmeno un minuto: di rientro non se ne parlò affatto.

Era già diventato cittadino libanese. Certo, non sono state tutte rose e fiori gli undici anni di soggiorno in Libano per il nostro ragioniere in fuga: a Beirut venne incarcerato per cinquanta giorni. La moglie lo abbandonò dopo un anno di vita in piscina e nelle hall dei grandi alberghi libanesi. In Italia il suo nome era additato a pubblico disprezzo, in quanto considerato il tipico rappresentante di quella categoria dei “cutunat“, i cotonieri esibizionisti e disinvolti, ingombranti e volgari. Quando scappò lasciò un impero industriale in dissesto.

Lo aveva ereditato alla morte del padre Giulio, uno che si era fatto da sé e che aveva vissuto da protagonista gli anni d’ oro della Milano “capitale morale ed economica d’ Italia”. Lo chiamavano il “mangiafuoco della Borsa”. Felicino, invece, era soltanto ambizioso. Al momento del trapasso fratello e sorella lo denunciarono per sottrazione di gioielli, sottrazione di eredità e furto. Beghe di famiglia, nero anticipo di quello che sarebbe stato il più grosso crack finanziario ed industriale degli anni Sessanta. Le fabbriche agonizzavano e lui se la passava a Forte dei Marmi sullo yacht e i tre motoscafi, i suoi operai che da bambino lo avevano chiamato “figlio del sole” perchè era bello e biondo ora gli buttavano sul palco della Scala volantini che non lasciavano perplessità: “Rag. Felice Riva, il tuo posto non è alla Scala, è a San Vittore“. Sul proscenio, “la Forza del destino”…

E poi, il ritorno in patria. Misterioso, oggi, per via del passaporto libanese. Siamo nel 1982. Nel Libano infuria la guerra. I grandi intoccabili alberghi del lungomare di Beirut cominciano ad essere bombardati. In Italia, grazie a condoni e amnistie, il curriculum giudiziario di Riva si riduce a zero. La questura milanese concede il nulla osta per il rilascio del passaporto (così si legge nelle cronache di quel maggio) su sollecitazione dell’ ambasciata italiana di Beirut. Il passaporto italiano che Riva aveva al momento della fuga è infatti scaduto ed è privo di validità. Per riottenerlo, si disse, Riva si era rivolto all’ambasciata. Perchè, se in tasca aveva fin dal 1974 un legittimo passaporto libanese?

Oggi dovrebbe vivere a Forte dei Marmi in Versilia. La figlia Raffaella è stata la bionda cantante del Gruppo Italiano, band di musica leggera in voga negli anni ’80, nonché apprezzata autrice di molti testi per Gianna Nannini. Le vicende di Felice Riva ispirarono la canzone “Lo stambecco ferito”  di Antonello Venditti. Ebbe anche una citazione nella canzone “Ma il cielo è sempre più blu”  di Rino Gaetano: “chi parte per Beirut e ha in tasca un miliardo” ed in un monologo di Giorgio Gaber.

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