Gianni Rivera, un’emozione per sempre
Sono diventato tifoso del Milan dopo aver visto giocare Gianni Rivera. Nato a Valle San Bartolomeo, Alessandria, il 18 agosto del 1943, figlio di un ferroviere e di una casalinga, esordisce in serie A all’età di 17 anni, un predestinato.
Gianni Rivera cresce nell’Italia del dopoguerra e del boom economico, con le spalle strette e le cosce che ancora non conoscono palestra e anabolizzanti.
Classe abbinata ad eleganza, cervello sopraffino, testa sempre alta, Rivera dava del tu al pallone che lo ringraziava con un vossìa. Tuttora da alcuni viene indicato come il più grande calciatore Italiano del dopoguerra.
In campo sfoderava un’intelligenza fuori dal comune, sapeva dove piazzare il pallone un attimo prima del pensiero degli altri comuni mortali, sapeva incantare la platea con lanci alle punte lunghissimi e calibrati.
Ribattezzato Golden Boy mise in mostra qualità tecniche straordinarie: la visione completa del gioco, le geometrie, i tocchi leggeri che smarcano i compagni.
Molti hanno goduto dei lanci illuminanti di Rivera: Altafini, Sormani, Prati, Combin, Bigon, Chiarugi, Aldone Maldera (un terzino, 17 reti in due campionati a 16 squadre)… e… vabbè, anche Calloni e Chiodi, ma è un dettaglio.
Come? Semplice, davi la palla a lui, scatto breve, un paio di finte fatte bene, alcuni metri di corsa, la difesa avversaria che si apre come il Mar Rosso davanti a Mosè… toh.. eccoti là… un lancio col contagiri e il pallone, bello e pronto, sul piede o sulla testa dell’attaccante di turno.
Prego, spingere, c’era scritto.
Rivera era un trequartista, un giocatore di fantasia che stava dietro agli attaccanti e aveva il compito di metterli in azione: «Sta a metà strada tra centrocampo e attacco, – scrivevano – imbecca le punte», nel Milan di Rocco Rivera «stava avanti a rifinire».
Rocco fu importante per la maturazione di Rivera, al punto che il calciatore arrivò a definirlo un «secondo padre» e ne portò il feretro ai funerali, nel 1979.
Ciò che gli si rimproverava era la mancanza di un fisico adeguato allo scopo, come se per dare calci al pallone i piedi fossero come il tettuccio apribile sulla Golf: un optional.
Alle critiche di alcuni giornalisti sul fatto che Rivera corresse poco e non si sacrificasse a sufficienza per la squadra, l’allenatore del Milan Nereo Rocco, suo mentore e grande estimatore, rispose: «non corre tanto, ma se io voglio avere il gioco, la fantasia, dal primo minuto al novantesimo l’arte di capovolgere una situazione, tutto questo me lo può dare solo Rivera con i suoi lampi. Non vorrei esagerare, perché in fondo è soltanto football, ma Rivera in tutto questo è un genio».
Ma per lui hanno corso il doppio (ma con immenso piacere) Lodetti, Biasiolo, Benetti, Buriani e solo per citarne alcuni.
Gianni Brera, uno dei massimi esponenti del giornalismo sportivo di tutti i tempi lo aveva soprannominato “l’abatino”, in senso dispregiativo descrivendolo pertanto come calciatore elegante e dotato di tecnica ma privo di temperamento agonistico.
In gioventù veniva paragonato a Giuseppe Meazza e a Juan Alberto Schiaffino e per il fisico minuto, negli anni dell’Alessandria, veniva soprannominato “Cosino” o “il Signorino”.
Ha giocato 19 stagioni nel Milan segnando 164 con la maglia rossonera, vincendo tre scudetti, due Coppe dei Campioni, una Coppa intercontinentale.
Nel 1969 a Madrid vince, primo italiano, il Pallone d’Oro di France Football. Michel Platini, che gli ha conferito il Premio del Presidente UEFA 2011, lo ha definito «uno dei più grandi assistmen della storia», aggiungendo che «la sua abilità nel dribbling e nella distribuzione del gioco ha avuto pochi eguali». Sin dagli esordi rivelò «uno stile inarrivabile: il tocco di velluto, il passaggio rasoterra millimetrico, il senso del gol».
Si è ritirato dal calcio attivo nel 1979, dopo lo scudetto della Stella.
Molti sono gli attestati di stima giunti a Rivera da compagni di squadra, critici e avversari, tra i quali Meazza, Silvio Piola, Raimundo Orsi, Giovanni Lodetti, Franco Baresi, Pelè e il tecnico dell’Inghilterra Alf Ramsey, che dopo la sconfitta contro la nazionale italiana del 1973 dichiarò: «Chi sono i quattro giocatori italiani più forti? Rivera, Rivera, Rivera e Rivera».
Chi è nato negli anni ‘60 o ancora prima, lo ricorda bene, avendolo visto dal vivo o in televisione. Chi invece è nato negli anni ‘70 può ricordarlo solo nella inevitabile parabola discendente di fine carriera.
Chi è nato dopo, ha visto solo dei filmati di repertorio.
A chi non l’ha mai visto giocare dico che non sa cosa si è perso. Immenso.