Lettera a un bomber

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higuainCaro Gonzalo, non ci conosciamo e forse non ci incontreremo mai. Ti seguo e ti ammiro per le tue grandi qualità tecniche : modestamente, posso dire che me intendo. Quando tu sei nato io avevo già smesso di giocare da un pezzo. E sì che ci hanno provato a farmi fuori ancora prima, molto spesso con le cattive maniere. Il calcio che ho vissuto io era diverso dal tuo. Meno televisioni, meno giornali, meno soldi. Da un paesino del lago Maggiore mi sono ritrovato su un’isola che sapevo esistesse solo per averla vista sulla cartina. Sono stato accolto come un Re e lì ho vinto tutto quello che potevo vincere. Sono in Sardegna da più di cinquant’anni e ormai da più di cinquant’anni sono uno di loro, un sardo. Oltre mezzo secolo da vagabondo, ma profondamente sardo. Ero diffidente, come tutti i diciottenni, quando sbarcai, controvoglia, su quest’isola sconosciuta. Il presidente del Legnano, squadra nella quale giocavo all’epoca, era un brav’uomo ma non voleva perdere 37 milioni, tanti soldi a quei tempi e mi propose di andare qualche giorno a Cagliari, con la promessa di stracciare il contratto se non mi fossi trovato bene.

Arrivai a Cagliari di sera e quando vidi le luci nel golfo mi lasciai scappare: “Quella è l’Africa”. Presi un calcio nel sedere da chi mi accompagnava. Il giorno dopo andai al campo, l’Amsicora, che non aveva un filo d’erba e pensai “Dove sono capitato”. Però i ragazzi mi fecero festa e l’argentino Longo, una bella persona, mi prese subito sotto la sua protezione. Rimasi qualche giorno e l’idea di passare dalla C alla B alla fine mi convinse ad accettare. I primi mesi sono stati tristi, alle nove di sera non girava più nessuno. Stavo con gli altri scapoli, Cera, Nenè, Tomasini. Non avevo la patente e mi aggrappavo dietro al tram per andare da via Roma a casa, senza pagare. Poi presi in comproprietà una Fiat 600 con Cera e Cappellaro, andando a guidare di nascosto sulla pista dello stadio, per imparare. L’istruttore un giorno mi disse che mi avrebbe dato la patente se avessi segnato la domenica. Feci una doppietta a Verona e arrivò la patente. Gli amici che avevo erano soprattutto pescatori che mi insegnarono a mangiare il pesce con le mani, lasciando soltanto le lische.

Ho cominciato ad amare questa terra andando nelle case dei pastori e negli ovili. Una volta, a Seui, in provincia di Nuoro, sulla credenza di un’anziana, notai anche una mia foto, tra i santini dei suoi genitori. L’amico che mi accompagnava chiese perché c’era la mia foto e la donna, senza riconoscermi, rispose perché “quello è buono”. Anche il bandito Mesina ogni tanto mi spediva lettere con tanto di francobollo, con queste parole in stampatello: “Domenica vengo a vedere la partita. Vinciamo, forza Paris”, che in dialetto vuol dire “forza insieme”. Ne parlai con Cera, il nostro capitano, che si raccomandò di bruciarle, cosa che puntualmente facevo. Rimase un segreto tra noi due e nessuno seppe mai niente, ma dietro le panchine mi è sembrato di vedere più volte Mesina in tribuna, con la barba, sempre immobile. Chissà.

La vittoria dello scudetto influì sulla scelta di restare in Sardegna, ma quest’isola mi aveva già conquistato. Quando vedevo la gente che partiva alla 8 da Sassari e alle 11 lo stadio era già pieno, capivo che per i sardi il calcio era tutto. Ci chiamavano pecorai e banditi in tutta Italia e io mi arrabbiavo. I banditi facevano i banditi per fame, perché allora c’era tanta fame, come ancora oggi purtroppo. Il Cagliari era tutto per tutti e io capii che non potevo togliere le uniche gioie ai pastori. Sarebbe stata una vigliaccata andare via, malgrado tutti i soldi della Juve. Dopo ogni partita spuntava Allodi che mi diceva “Dai, telefoniamo a Boniperti”. Ma io non ho mai avuto il minimo dubbio e non mi sono mai pentito”. Mi hanno dato persino la cittadinanza onoraria di Cagliari e la mia maglia è stata ritirata. E un giorno racconterò anche alla mia nipotina più piccola la bellissima storia del nonno Gigi che non ne voleva sapere di venire a Cagliari. I soldi non sono tutto nella vita di un calciatore, caro Gonzalo. Magari un giorno lo capirai anche tu. Un saluto, Gigi Riva.

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